Saggio Accesso open access Data pubblicazione: 25/07/2022
Data pubblicazione: 25/07/2022

La business judgement rule e il sindacato del giudice penale sull’adeguatezza degli assetti organizzativi

Abstract

La riforma della crisi d’impresa, come noto, ha interessato anche il codice civile attribuendo all'imprenditore che operi in forma societaria o collettiva il dovere, in funzione della rilevazione tempestiva della crisi e della perdita della continuità aziendale, di istituire assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati alla natura e alle dimensioni dell'impresa.

Il giudizio sull’adeguatezza degli stessi comporta, inevitabilmente, il possibile sindacato sulla colpa delle condotte dell’amministratore; v’è bisogno, dunque, di analizzare l’ampiezza dei poteri di chi è chiamato a sindacare sulle scelte gestorie dell’imprenditore, atteso che deliberare in ordine all’adeguatezza di un assetto organizzativo, amministrativo o contabile – oltre ad avere immediate ricadute sulla responsabilità del titolare della gestione – potrebbe mal conciliarsi con la c.d. business judgement rule.

Ciò posto, si ritiene che l’introduzione dell’obbligo giuridico di adottare adeguati assetti organizzativi, allargando il contenuto della posizione di garanzia dell’imprenditore collettivo, estenda parimenti l’oggetto del decisum del giudice penale, chiamando così in causa la necessità di ragionare sull’opportunità del sindacato di quest’ultimo sulle scelte imprenditoriali.


Parole chiave: Business judgement rule; Assetti organizzativi; Fallimento e bancarotta; Compliance; Continuità aziendale


The reform of bankruptcy law, as is known, has also affected the civil code by providing, among other things, for the entrepreneur who operates in a corporate or collective form, the duty to establish organizational, administrative and accounting structures adequate to the nature and the size of the company, especially in relation to the timely detection of the crisis and the loss of business continuity.

Therefore, the judgment on the adequacy of the same will inevitably reflect on the judgement upon the liability of the directors, indeed, there is a need to analyze the extent of the powers of those called to judge the managerial choices of the entrepreneur, given that deciding on the adequacy of an organizational, administrative or accounting structure - in addition to having immediate repercussions on the responsibility of the board of directors - might not match with the so-called “business judgment rule”.

Therefore it is believed that the introduction of the legal obligation to adopt adequate organizational structures, expands the content of the guarantee position of the corporate entrepreneur, extending also the object of the criminal judge's decision, thus calling into question the need to reason on the opportunity of the latter of ruling business choices.


KeywordsBusiness judgement rule; Corporate governance management; Bankruptcy; Compliance; On going concern

    1. Un breve accenno all’indirizzo che appare prevalere nella giurisprudenza penale di legittimità

      Le questioni che concernono la compatibilità della business judgement rule con il sindacato del giudice penale sulla responsabilità del titolare della gestione d’impresa non sembrano aver impegnato troppo il dibattito giurisprudenziale.

      A onor del vero a chi scrive consta un unico precedente1 in materia di business judgement rule e interessa la responsabilità per fatti di bancarotta2. Deve a tal proposito precisarsi che l’analisi di tale problematica in relazione ai reati fallimentari giovi alla trattazione, in quanto l’obiettivo del presente studio è quello di decifrare i profili di operatività della business judgement rule con riguardo alla possibilità di giudicare l’adeguatezza degli assetti organizzativi, la cui predisposizione è divenuta, con la riforma della crisi d’impresa, uno degli obblighi che integrano la posizione di garanzia del titolare della gestione d’impresa.

      Anticipando brevemente le conclusioni cui sono giunti i giudici di legittimità, con l’unica pronuncia che sembra davvero pertinente al caso di specie, la giurisprudenza penale non sembrerebbe incline a considerare l’esistenza di limiti (ancorché basati su presunzioni favorevoli) alla sindacabilità del fatto imprenditoriale, così come astrattamente rilevante in materia penale.

      Segnatamente, adoperando un ragionamento molto più profondo – ça va sans dire – della semplice aprioristica esclusione del sindacato di discrezionalità imprenditoriale, in realtà la S.C. ha ritenuto con detto intervento che, limitatamente alle condotte dissipative della bancarotta patrimoniale, in quanto reato di pericolo in concreto, il sindacato del giudice penale non si esaurisca nella valutazione ex ante, poiché, non trattandosi di reati colposi (in cui rileva la prevedibilità ed evitabilità), l’effetto della condotta (rectius il dissesto) non può essere ignorato.

      Secondo la Suprema Corte, infatti, i confini del sindacato sulla gestione dell'impresa sono determinati ed individuati dall'oggetto della tutela, costituito dall'interesse dei creditori alla conservazione della garanzia, e contemporaneamente dalle stesse modalità di aggressione normativamente tipizzate e selezionate per l'incriminazione3.

      Prima di entrare appieno nell’analisi delle criticità di tale orientamento è senza dubbio opportuno dare una definizione di business judgement rule.

        2. La c.d. business judgement rule

          Con il concetto di business judgement rule si intende la prassi, di elaborazione dottrinale statunitense, che ha lo scopo di limitare il sindacato dell’autorità giudiziaria nell’ambito delle azioni di responsabilità contro gli amministratori, garantendo, in tal guisa, l’autonomia delle scelte gestionali da essi poste in essere.

          Proprio con lo scopo di impedire un’eccessiva “ingerenza” dell’organo giudicante nel merito delle scelte gestorie degli amministratori, nel dibattito ermeneutico si è accolta di buon occhio questa good practice.

          Lo spiraglio entro cui tale principio si è insinuato nel nostro ordinamento è costituito dal presupposto per cui l’amministratore risponde degli obblighi che derivano dalla legge e dallo statuto in ragione della propria competenza e della natura del proprio incarico: in sostanza l’obbligazione del titolare della gestione, seppur connotata da una diligenza qualificata, è pur sempre un’obbligazione di mezzi e non di risultato.

          L’oggetto del sindacato del giudice, pertanto, non è costituito dall’obiettivo raggiunto, ma saranno in via esclusiva le modalità di esercizio del potere discrezionale che deve riconoscersi in capo agli amministratori e il rispetto degli obblighi generali, e specifici, previsti dall’ordinamento.

          Detta regola, in estrema sintesi, discende dall'elaborazione dottrinale statunitense del diciannovesimo secolo che aveva analizzato le prime pronunce sulla responsabilità degli amministratori di società di capitali per vicende di cui si era occupata la giurisprudenza dello Stato del Delaware.

          Oggetto del sindacato del giudice americano furono le valutazioni, effettuate dal board of directors, degli assets societari durante operazioni di fusione societaria, perciò l’accertamento della responsabilità di questi consistette nel verificare se i danni occorsi alla società, a seguito di dette operazioni, fossero addebitabili a inadempimenti.

          La regola consiste, precisamente, in una presunzione secondo cui gli amministratori agiscono su base informata, in buona fede e nell'interesse della società, con la conseguenza di esonerare da responsabilità il board of directors laddove abbia agito in ossequio una serie di fiduciary duties quali: the duty of care; the duty to monitor; the duty to inquiry; the duty of loyalty.

            3. La business judegement rule e la responsabilità degli amministratori per il mancato o inadeguato assetto organizzativo

              L’introduzione del nuovo secondo comma all’art. 2086 c.c., per un verso allarga il campo di analisi dell’organo giudicante chiamato a decidere della responsabilità (civile e penale) del titolare della gestione d’impresa, per altro potrebbe restringere le ipotesi di colpa (o dolo) all’adozione inadeguata di assetti organizzativi, amministrativi e contabili, fatte salve le altre ipotesi tipiche.

              Dalla lettera della novella, infatti, non v’è dubbio che gli assetti organizzativi, oggetto del nuovo obbligo giuridico, vincolino il gestore d’impresa con riferimento esclusivo alla continuità aziendale e alla prevenzione del rischio della crisi, onde consentirgli di intervenire tempestivamente sempre nell’ottica di continuità; tutto ciò ovviamente nell’interesse dell’impresa, per il perseguimento dello scopo sociale e il soddisfacimento della massa creditoria.

              L’adeguatezza degli assetti, pertanto, merita un ragionevole apprezzamento da parte del giudicante e può – ma non necessariamente deve – permettere una via d’uscita all’imprenditore collettivo diligente.

              Sebbene, infatti, il rischio d’impresa sia insito nell’esercizio della stessa, non vi deve essere un’esasperazione di tale concetto, dovendosi sempre tenere in mente che la garanzia dei creditori non può essere essa stessa la causa della congestione dell’attività d’impresa. L’interesse lucrativo e il perseguimento dello scopo sociale deve essere controbilanciato, e non soverchiato, dall’interesse dei creditori, anche perché solo l’attività d’impresa potrà accrescere l’attivo in favore proprio dei terzi in attesa di essere soddisfatti.

              È per queste ragioni, dunque, che si ritiene doveroso un ripensamento di alcuni principi che regolano la responsabilità del gestore d’impresa4, donde la necessità di maggiore omogeneità tra giudicato civile e penale nel rispetto dei limiti e delle direttive costituzionali e convenzionali.

              L’elaborazione dottrinale5 ha enucleato le condizioni entro cui operi l’insindacabilità delle scelte gestorie.

              Innanzitutto la scelta non deve implicare alcun interesse diretto o indiretto degli amministratori, ossia non ci si deve trovare in presenza di decisioni infedeli (i.e.: che coinvolgano il più generico duty of loyalty).

              Inoltre essa deve essere deliberata in "trasparenza di tutte le informazioni disponibili", nonché a seguito di una "prudente considerazione delle alternative".

              Condizione indefettibile è, poi, l’aver agito in buona fede, nel compimento di "atti ragionevolmente rappresentanti lo scopo sociale".

              Dal canto suo, la giurisprudenza6 richiama la necessità di distinguere tra obblighi gravanti sugli amministratori che hanno un contenuto specifico e già determinato dalla legge o dall'atto costitutivo – tra i quali rientra quello di rispettare le norme interne di organizzazione relative alla formazione e alla manifestazione della volontà della società – e obblighi definiti attraverso il ricorso a clausole generali, quali l'obbligo di amministrare con diligenza e quello di amministrare senza conflitto di interessi.

              Mentre per questi ultimi la responsabilità dell'amministratore deve essere collegata alla violazione del generico obbligo di diligenza nelle scelte di gestione, sicché la diligente attività dell'amministratore è sufficiente ad escludere direttamente l'inadempimento, a prescindere dall'esito della scelta per gli obblighi specifici, costituendo la diligenza la misura dell'impegno richiesto agli amministratori, la loro responsabilità può essere esclusa solo nel caso previsto dall'art. 1218 c.c., quando cioè l'inadempimento sia dipeso da causa che non poteva essere evitata né superata con la diligenza richiesta al debitore dell’obbligo.

              Si è ancora precisato che, sebbene sia vero che non sono sottoposte a sindacato di merito le scelte gestionali discrezionali, anche qualora presentino profili di alea economica superiori alla norma, resta invece valutabile la diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente – se necessario con adeguata istruttoria – i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere, così da non esporre l'impresa a perdite, altrimenti prevenibili7.

              Nonostante la linea di confine tra “scelta sindacabile” e quella “non sindacabile” rimanga sottile, è certo che all'amministratore di una società non possa essere imputato l’aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attiene alla discrezionalità imprenditoriale e può pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca, ma non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società.

              In definitiva, dunque, il giudizio sulla diligenza dell'amministratore nell'adempimento del proprio mandato non può investire le scelte di gestione o le modalità e circostanze di tali scelte, anche se presentino profili di rilevante alea economica. Al contrario il giudizio può concernere la diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere e, quindi, l'eventuale omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni normalmente richieste per una scelta di quel tipo8.

              Ora, è proprio in questa area di sindacabilità che si inserisce l’intervento di riforma del legislatore del codice della crisi d’impresa con cui si è introdotto l’obbligo per il titolare della gestione societaria di adottare idonei assetti organizzativi volti alla prevenzione del rischio.

              Ci si domanda, allora, come il giudizio sull’adeguatezza dell’assetto organizzativo imposto dal novellato art. 2086 c.c. possa risentire della business judgement rule. Analoga questione si era già posta con riguardo agli assetti organizzativi previsti dall’art. 2381 co. 5 c.c., nonché ai doveri di controllo dei consiglieri senza delega sull’amministratore delegato di cui all’art. 2381 co. 3 c.c. In questi casi la risposta era prevalentemente giunta ad attribuire all’amministratore delegato le colpe per la mancata o difettosa adozione di cautele organizzative, e ad imputare ai colleghi senza delega l’omesso controllo organizzato – in contrasto con il c.d. agire informato – sul consigliere delegato.

              Con riferimento all’obbligo dettato dalla nuova disciplina di cui all’art. 2086, co. 2, c.c., è necessario prendere in considerazione due distinte ipotesi di potenziale inadempimento: l’assoluta mancanza di modelli organizzativi oppure l’inadeguatezza degli stessi.

              Con riguardo alla prima ipotesi, l’amministratore (delegato o non) che ometta in maniera assoluta di dotarsi di adeguati assetti si esporrà ad un’inevitabile censura, privandosi di qualsiasi riparo dalla sindacabilità del giudicante.

              La mancata adozione di un modello, sebbene costituisca una scelta di politica gestoria, sarà comunque oggetto del sindacato giudiziale, perché in contrasto con l’archetipo di legalità della gestione oggi cristallizzato nel novellato art. 2086 c.c.

              Infatti, così come l’art. 2381 comma 5 c.c., anche l’art. 2086 comma 2 c.c., dispone un obbligo specifico di condotta, la cui omissione è essa stessa fonte di responsabilità ex art. 1218 c.c.

              Inoltre, il riferimento, che entrambe le richiamate disposizioni fanno «alla natura e alle dimensioni dell’impresa», introduce un parametro oggettivo (sebbene poco tassativo) cui potrà conformarsi il giudicante, che, in quanto tale, è certamente sottraibile al divieto di sindacabilità dell’attività gestoria.

              Giova ricordare quanto detto sopra circa la sindacabilità dell’iter decisorio che ha portato alla scelta (e non al risultato di questa).

              Premesso che il giudizio possa estendersi alla ragionevolezza del procedimento decisionale, va da sé che la mancata attuazione di obblighi di legge non possa che essere considerata come inadempimento.

              Pertanto ad essere vietato è soltanto il sindacato su comportamenti e scelte che non siano imposti da norme cogenti fonti di obblighi specifici9.

              Nella seconda ipotesi, nel caso di sindacato giudiziario sull’inadeguatezza degli assetti, il tema è senz’altro molto più articolato.

              Bisogna infatti domandarsi se la regola della business judgment rule, nata e sviluppatasi con riferimento alle scelte imprenditoriali degli amministratori, possa applicarsi alle scelte di carattere "organizzativo" da essi poste in essere.

              La giurisprudenza, soprattutto di merito, tende a dare risposta affermativa, partendo proprio dalla formulazione del già citato art. 2381 c.c., che pone a carico degli amministratori il dovere di curare l'adeguatezza dell'assetto organizzativo, amministrativo e contabile della società.

              Tale conclusione trova più decisa giustificazione con l’introduzione dell’art. 2086 comma 2 c.c. e l’estensione positiva di tale principio alla disciplina che regola gli obblighi dell’amministratore in tutte le forme societarie.

              Sebbene la scelta di carattere organizzativo rimanga pur sempre una scelta afferente al merito gestorio, per cui vale il criterio dell’insindacabilità, la business judgement rule incontra i limiti già sopra esposti: la ragionevolezza della scelta effettuata e l’assenza di manifeste violazioni cautelari nell’iter decisorio, ferma la necessità di eseguire la valutazione su tali aspetti alla luce della competenza e della natura dell’incarico.

              Il quesito si specifica allora nel presente interrogativo: se ed in quali termini possa essere sindacata la scelta di una determinata struttura organizzativa piuttosto che un'altra, ai fini della rilevazione tempestiva degli indici della crisi e della perdita della continuità aziendale.

              Inoltre, si pone l’esigenza di capire se un eventuale deficit organizzativo possa consentire di affermare la responsabilità dell'organo gestorio, laddove siano state assunte determinate scelte relative alla pianificazione degli interventi per prevenire la degenerazione della crisi, che poi si siano invece rivelate dannose o fallimentari.

              Ebbene, secondo una recente pronuncia di merito10, sotto entrambi i profili (sia quello della rilevazione della crisi, sia quello degli interventi conseguenti), le scelte dell'amministratore – siano esse prettamente gestionali ovvero di tipo organizzativo – possono essere sindacate nei limiti del principio della business judgment rule.

              Ne deriva che, mentre da un lato appare certo che la mancata adozione di qualsivoglia misura organizzativa comporti di per sé una responsabilità dell'organo gestorio, dall'altra, si ritiene possibile assoggettare a sindacato giudiziale la struttura organizzativa predisposta dall’amministratore, nei limiti e secondo i criteri della proporzionalità e della ragionevolezza (e, precisamente, in questo ambito secondo i criteri della adeguatezza), giungendo perciò a verificarne l’idoneità a far emergere gli indici della perdita della continuità aziendale oltre che la ragionevolezza o non manifesta irrazionalità della tipologia degli interventi prefigurati dall'organo gestorio.

              Tale verifica andrà effettuata sulla base di una valutazione ex ante, tenendo conto delle informazioni conosciute o conoscibili dall'amministratore, prescindendo perciò dai risultati concreti che poi sono stati raggiunti, dal momento che la responsabilità dell'amministratore presuppone pur sempre una condotta colposa o dolosa.

              Ne consegue che incorre in condotte di mala gestio l'amministratore che ometta del tutto di approntare una qualsivoglia struttura organizzativa, rimanendo inerte di fronte ai segnali indicatori di una situazione di crisi o pre-crisi.

              Per contro, non potrà ritenersi responsabile l'amministratore che abbia predisposto delle misure organizzative che, con una valutazione ex ante, erano adeguate, secondo le sue conoscenze e secondo gli elementi a sua disposizione, a verificare tempestivamente la perdita della continuità aziendale.

              Parimenti, non potrà ritenersi responsabile l'amministratore che, pur avendo tempestivamente rilevato – grazie alla struttura organizzativa predisposta – il venir meno della continuità aziendale, ponga in essere degli interventi che, successivamente, si rivelino inutili ad evitare la degenerazione della crisi (ed eventualmente il fallimento della società), qualora tali interventi, sempre sulla base di una valutazione ex ante, non risultino manifestamente irrazionali ed ingiustificati11.

                4. Il sindacato del giudice penale sulle scelte gestorie dell’imprenditore: l’asserita inapplicabilità della business judgement rule nel processo penale

                  Alcuni eccessi di rigorismo applicativo da parte della giurisprudenza penale, sembrano ricondursi ad un problema ricorrente, ossia il dubbioso margine di sindacabilità delle scelte imprenditoriali da parte del giudice penale.

                  Tale vexata quaestio si ritiene abbia matrici senza dubbio culturali viste, soprattutto, le divergenze tra l’interpretazione civilistica e la giurisprudenza penale.

                  Il dibattito, infatti, tende a sottolineare l’incapacità del giudicante penale di immedesimarsi nelle vesti dell’imprenditore, per definizione propenso al rischio. Nondimeno, tale propensione non si ritiene possa sfociare in una presunzione di accettazione del rischio dissesto, secondo l’accezione eventuale penale, ma dovrebbe garantire dei margini di operabilità (e “fallibilità”) in un’ottica costituzionalmente orientata alla proporzionalità e ragionevolezza, in ossequio agli artt. 2, 3 e 41 Cost.

                  Come premesso – dato che non constano precedenti in materia – l’unica pronuncia che rileva in materia12 tende a caratterizzare in maniera decisa l’orientamento della giurisprudenza, ritenendo, invero, che, ai fini della configurabilità del reato di bancarotta fraudolenta, non possa trovare applicazione la regola della cd. business judgement rule.

                  Tale categorico assunto è maturato nelle more di una decisione, in tema di bancarotta patrimoniale per condotte dissipative, che ha ritenuto infondate le doglianze dei ricorrenti circa la falsa applicazione di legge, visto il travalicamento dei limiti imposti da tale regola.

                  In sostanza – come si è detto in precedenza – la prassi statunitense richiede che nei casi in cui gli amministratori abbiano assunto una decisione qualificabile come ragionevole e razionale, al verificarsi di risultati negativi essi saranno affrancati da eventuali responsabilità, poiché titolari di una certa discrezionalità nel decidere sull'opportunità di un progetto.

                  Infatti, la gestione dell'attività di impresa comporta dei rischi, per cui estendere la cognizione del giudice anche al merito della decisione deprimerebbe l'attività di gestione, rallentando e compromettendo il processo decisionale, anche in riferimento a scelte corrette a livello procedurale (per qualità e quantità di informazioni acquisite) e sostanziale (in riferimento alla ragionevolezza al momento della deliberazione), che verrebbero compromesse pur di evitare risultati negativi.

                  L’aspetto è stato approfondito dagli studiosi13 sotto l'angolatura della differenza tra discrezionalità amministrativa e discrezionalità tecnica, sino a giungere alla conclusione che sarebbero insindacabili le scelte frutto di discrezionalità imprenditoriale; viceversa sarebbero sindacabili le scelte discrezionali meramente tecniche, specie se prive di ragionevolezza o di buon senso. Difatti la libera scelta imprenditoriale interessa un'opzione tra le diverse possibili, mentre la discrezionalità tecnica utilizza determinate cognizioni – tecniche appunto –, che consentono di pervenire a risultati prestabiliti. Ragion per cui il difetto di esercizio della discrezionalità tecnica (rectius, il discostamento dal risultato “tecnicamente” atteso) sarebbe frutto di dolo, ovvero di imperizia, mentre la discrezionalità imprenditoriale potrà semmai essere viziata da imprudenza, anche se difficilmente sindacabile a posteriori14.

                  Il nostro ordinamento sembrerebbe, specie in tema di responsabilità civile, aver recepito l'applicabilità della regola della business judgment rule già in seno all’art. 2932 c.c.15; così come la giurisprudenza delle sezioni civili, anche prescindendo dalla BJR, è stata solita ritenere che all'amministratore di una società non possa essere imputato l’aver compiuto scelte inopportune dal punto di vista economico, atteso che una tale valutazione attenga alla discrezionalità imprenditoriale e possa pertanto eventualmente rilevare come giusta causa di revoca dell'amministratore, non come fonte di responsabilità contrattuale nei confronti della società16.

                  In sostanza, quindi, deve ritenersi pacifico – nel panorama civile – che l'amministratore non possa essere responsabile di scelte economiche in ragione della discrezionalità imprenditoriale di cui è dotato. Può semmai rilevare colposamente l'omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni preventive, normalmente richieste per una scelta economica, operata in quelle circostanze e con quelle modalità, il che implica la valutazione della diligenza mostrata nell'apprezzare preventivamente i margini di rischio connessi all'operazione da intraprendere.

                  Pur condividendo tali premesse, però, la giurisprudenza penale in rassegna giunge, quasi aprioristicamente, a ritenere che l'assetto raggiunto dall'ermeneusi civilistica, sul tema della business judgment rule, «non possa essere automaticamente traslato nel campo della valutazione circa la sussistenza degli elementi costitutivi di un reato, quale la bancarotta fraudolenta patrimoniale, che può involgere la considerazione di scelte imprenditoriali»17.

                  Il Supremo giudice penale ritiene, invero, che

                  «il concetto di fondo della business judgment rule sia connotato geneticamente dalla sua elaborazione in un contesto risarcitorio, tipicamente civilistico, il che, pertanto, non ne consente l'automatica applicazione in riferimento alla struttura di un reato, la cui configurazione non solo non si arresta sulla soglia della valutazione ex ante della scelta imprenditoriale, ma postula, altresì, l'accertamento di una esposizione a rischio del patrimonio sociale, in dipendenza da quella scelta18».

                  Secondo la citata S.C., ai fini della valutazione della sussistenza della fattispecie di bancarotta fraudolenta quale reato di pericolo concreto, l'interprete deve necessariamente porsi nell'ottica del soggetto agente nella fase in cui egli aveva operato la scelta imprenditoriale, tuttavia è obbligato a considerare l'effetto che tale scelta ha determinato in concreto sull'assetto patrimoniale una volta intervenuto il fallimento (o la dichiarazione di stato di insolvenza).

                  Sicché si deve operare ben al di là della semplice valutazione di scelte discrezionali dell'imprenditore (e di tutte le conseguenti disquisizioni sui criteri ed i limiti di tale possibile valutazione),

                  «posto che non ci si trova affatto in presenza di fattispecie punita a titolo di colpa, bensì di fattispecie il cui elemento soggettivo è costituito dal dolo».

                  La peculiarità dell'operazione interpretativa – secondo detta impostazione – sta nella verifica, che si compie allorquando si è già determinata una vicenda dannosa per la garanzia dei creditori, di cui occorre accertare se l'agente si fosse fatto carico, in prospettiva, nel momento in cui aveva adottato una certa opzione.

                  Tale valutazione ex ante va ben al di là di un sindacato avente ad oggetto scelte discrezionali, dovendo farsi carico di un accertamento ben più complesso ed articolato, consistente nel

                  «verificare se l'agente avesse previsto come possibili determinati esiti e conseguenze della propria scelta e della propria conseguente condotta, accettando la loro verificazione, anche nella consapevolezza del danno che le stesse possono arrecare alla garanzia dei creditori e abbia, ciò nondimeno, agito».

                  Ciò che rileva, nel quadro ricostruttivo del giudice penale, non è una scelta irragionevole, ma una scelta del tutto macroscopica ed abnorme, ossia manifestamente configgente ed incoerente con la tutela del ceto creditorio e con la logica di impresa, tenuto conto del concreto contesto di riferimento sottoposto al giudicante.

                  5. Osservazioni critiche all’odierna impostazione giurisprudenziale

                  La ricostruzione giurisprudenziale sull’incompatibilità tra la business judgement rule e il libero apprezzamento del giudice penale, nella misura sin qui analizzata, sembra essere su più punti criticabile.

                  Innanzitutto, appare fortemente contraddittoria l’affermazione secondo cui il giudice penale che è chiamato a valutare la sussistenza degli elementi tipici di un fatto di bancarotta – patrimoniale soprattutto – debba non solo porsi nelle vesti ex ante dell’agente, ma considerare le conseguenze di tale condotta.

                  Tale affermazione stride fortemente con la pacifica considerazione del delitto di bancarotta patrimoniale quale reato di pericolo in concreto, atteso che la giurisprudenza di legittimità – come già analizzato – ha sempre escluso la necessaria riconduzione eziologica delle condotte di bancarotta al dissesto, anche sulla scorta della natura della sentenza dichiarativa di fallimento come condizione di punibilità ex art. 44 c.p. e non come evento del reato19.

                  Ragion per cui proprio le condotte di cui all’art. 216 comma 1 n. 1) L.F. dovrebbero essere valutate tenendo in considerazione la discrezionalità dell’imprenditore, specie nei casi in cui il fallimento venga dichiarato ad una considerevole distanza temporale dalla condotta distrattiva o dissipativa.

                  Anche perché, diversamente ragionando, addebitare un fatto (il fallimento) a posteriori, forzando la sussistenza ex ante degli elementi che costituiscono la condotta pericolosa potrebbe configurare derive in malam partem.

                  Vero è che la conseguenza di cui il giudice penale tiene conto (come precisato in sentenza) non è il dissesto, ma la diminuzione patrimoniale che abbia concretamente viziato la garanzia creditoria, ma è pur vero che la quasi totalità delle scelte imprenditoriali sono foraggiate con l’attivo patrimoniale. Pertanto, così come la business judgement rule non dovrebbe automaticamente impedire al giudice di sindacare, parimenti non tutte le scelte che implicano una disposizione dell’attivo debbano aprioristicamente essere sottratte da garanzie pacificamente riconosciute a tutti i livelli dell’ordinamento.

                  L’accettazione concettuale della business judgement rule altro non farebbe che permettere l’esercizio della funzione giudicante entro parametri di ragionevolezza, che anche ove presunta (trattasi pur sempre di presunzione semplice) sarebbe maggiormente compatibile con il principio di colpevolezza rispetto a una presunzione di rilevanza penale degli atti dispositivi dell’attivo patrimoniale.

                  Non trova apprezzamento da parte di chi scrive neppure il tema – solo lambito – sulla differenza di accertamento tra dolo e colpa.

                  Il reato colposo è pacifico sussista laddove venga violata una condotta cautelare, idonea ex ante a prevenire il verificarsi dell’evento di reato, e tale evento indesiderato si verifichi.

                  Pertanto, seppur vero che reato colposo (reato d’evento) e reato doloso (potenzialmente configurabile in ragione di condotte pericolose) siano ontologicamente distinti, resta altresì indiscusso che la responsabilità colposa sia residuale e meno grave di quella per fatti dolosi.

                  Ragion per cui escludere aprioristicamente il ricorso ad una regola come la business judgement rule – che non è una massima d’esperienza, ma ha fondamenti legali – nei reati dolosi (anzi nei reati di bancarotta) è un approdo dogmatico e non ragionevolmente sostenuto, dal quale l’interprete dovrebbe rifuggire.

                  Sotto la medesima angolatura, non può ignorarsi che l’accertamento della responsabilità civile (basato su criteri probabilistici) è sicuramente meno rigoroso del giudicato penale che pretenderebbe un accertamento della responsabilità al di là d’ogni ragionevole dubbio.

                  Perciò anche in tal caso escludere l’applicabilità di una regola pacificamente accolta dalla giurisprudenza per gli stessi fatti, ancorché penalmente rilevanti, stride manifestamente con i principi generali della sanzione penale intesa come extrema ratio.

                  La sussidiarietà e frammentarietà del diritto penale dovrebbero far sì che si ricorra alla sanzione estrema a seguito di una naturale progressione di rimedi extra penalistici, perciò un medesimo fatto non può essere civilmente irrilevante, ma costituire un gravissimo illecito penale: tale conclusione violerebbe i principi di ragionevolezza e proporzionalità costituzionali.

                  Infine, non può ignorarsi che, ritenuta l’applicabilità della business judgemet rule per la responsabilità dell’amministratore in sede civile, quest’ultima non farebbe altro che uscire dalla porta e rientrare dalla finestra. Invero, se tale regola non vale per il processo penale, pur operando pacificamente in sede civile, non ci si spiega allora perché il curatore fallimentare possa costituirsi parte civile nel processo penale fallimentare, adducendo come causae petendi gli artt. 2392 ss. c.c. in combinato con l’art. 2494bis c.c.

                  Alla luce delle sopra spiegate contrapposte argomentazioni, chi scrive ritiene semplicemente che nel frastagliato panorama della responsabilità penale per i reati concorsuali, l’esercizio del potere di giudicare la colpevolezza di una condotta dovrebbe rifuggire da logiche schematiche ed evitare di prescindere da analisi di meritevolezza pro casu.

                  Accettare l’applicabilità di una regola ormai insita nell’ordinamento come la business judgement rule non significa inibire il sindacato del giudice penale sulle condotte astrattamente lesive per la massa creditoria, ma dovrebbe “consentire” alla pubblica accusa l’accertamento (beyond any reasonable doubt) di tutti gli elementi costitutivi del reato, in ossequio alla presunzione di non colpevolezza cristallizzata a livello costituzionale e convenzionale20.

                  Gli strumenti di prevenzione del rischio d’impresa (sub specie quello penale) sono diffusi nell’ordinamento da decenni (e.g.: d.lgs. 231/2001; d.lgs. 81/2008 e ancor prima d.lgs. 626/1994, ecc.), è chiaro dunque ci fosse un vulnus in tal senso nella disciplina della responsabilità civile dell’amministratore.

                  La colpa del titolare della gestione d’impresa è giocoforza configurabile come una colpa d’organizzazione, alla stregua di quanto avviene in materia di responsabilità amministrativa degli enti, si ritiene dunque più che opportuno pretendere apertis verbis che il vertice di organizzazioni complesse debba dotarsi di assetti organizzativi (sulla falsariga dei M.O.G.) adeguati a prevenire il rischio di insolvenza ovvero a farvi fronte21.

                  L’esigenza di garantire la continuità aziendale dell’impresa non può che gravare su chi è il fautore delle policy di gestione ed è indubbio l’interesse collettivo a che ciò avvenga.

                  Segnatamente, il titolare della gestione d’impresa collettiva ha il dovere di istituire assetti organizzativi, amministrativi e contabili adeguati alla natura e alle dimensioni dell'impresa, anche in funzione della rilevazione tempestiva della crisi dell'impresa e della perdita della continuità aziendale, nonché di attivarsi senza indugio per l'adozione e l'attuazione di uno degli strumenti previsti dall'ordinamento per il superamento della crisi e il recupero della continuità aziendale.

                  Sebbene la genericità del concetto di adeguatezza degli assetti continui a lasciare ampio margine discrezionale all’organo giudicante, viene indicata la strada da seguire. Sicché sarà quanto meno rimproverabile la colpa del gestore d’impresa che si discosterà dal selciato della continuità aziendale laddove indugi nell’intervenire tempestivamente.

                  In pratica il legislatore, avendo negli anni offerto diversi strumenti deflattivi delle procedure concorsuali liquidatorie, chiede all’imprenditore lo sforzo di adeguarsi a quanto legalmente stabilito in materia pre-fallimentare.

                  Ovviamente si è ben consapevoli della fisiologia dei momenti di crisi dell’impresa, perciò, interpretando secondo ragionevolezza il disposto dell’art. 2086 co. 2 c.c., non violerà l’obbligo ivi previsto chi non riesce a sovvertire lo stato di crisi riportando l’impresa sul retto cammino della continuità aziendale e questo in quanto l’obbligazione del gestore rimane un’obbligazione di mezzi come ampiamente discusso.

                  Quel che si pretende, però, è di dotarsi di una struttura organizzativa idonea a prevenire e rilevare tempestivamente tutti i malesseri dell’impresa, in tal guisa permettendo un corretto e tempestivo intervento, sempre mirando l’orizzonte della continuità aziendale.

                  Ciò che sembra essere innovativo, perciò, è il ruolo di protagonista che assume la continuità aziendale rispetto alla classica garanzia per la par condicio creditorum22.

                  Sembrerebbe finalmente aver intuito il legislatore che la garanzia per i terzi creditori non risieda solo nell’attivo patrimoniale, il quale ha per definizione natura statica (sebbene gli accrescimenti o le diminuzioni), ma ciò che può garantire l’assolvimento degli oneri economici sono i flussi di cassa prospettici. Tant’è vero che il legislatore, anche nella recente riscrittura23 dell’art. 2 lett. a) d.lgs. 14/2019, ha definito la crisi d’impresa come: «lo stato del debitore che rende probabile l'insolvenza e che si manifesta con l’inadeguatezza dei flussi di cassa prospettici a far fronte alle obbligazioni nei successivi dodici mesi».

                  Se dunque sembrerebbe richiedersi all’imprenditore collettivo una maggiore attenzione per il conto economico, forse andrebbero leggermente ripensati alcuni eccessi punitivi per operazioni che interessano l’attivo patrimoniale, atteso che la sua consistenza è comunque subordinata al rapporto costi e ricavi.

                  In conclusione, per chi scrive, l’art. 2086 secondo comma c.c. chiarisce l’obbligo giuridico dell’amministratore, integrandone la posizione di garanzia, donde la duplice rilevanza: da un lato l’adozione di un modello adeguato previene la crisi d’impresa nell’interesse economico generale; dall’altro il difetto di funzionamento o l’assoluta mancanza di un modello configurano violazioni che integrano la colpa specifica dell’amministratore, costituendo parametro di valutazione anche (ove ne ricorrano i presupposti) di responsabilità penali.

                  Va da sé che la novella assuma funzione integratrice del precetto penale, soprattutto nella misura in cui la violazione dell’obbligo da essa previsto sia causa del dissesto. Pertanto, anche allorquando il giudice penale (esprimendo un giudizio di valore) sia chiamato a giudicare l’adeguatezza degli assetti organizzativi atti a rilevare la crisi d’impresa, ad essere sindacata dovrebbe essere l’idoneità ex ante di prevenire la crisi; in particolare dovrebbe presumersi la ragionevolezza della scelta imprenditoriale e, viceversa, discutersi l’adeguatezza dell’operazione solo e soltanto sotto il profilo tecnico, tutto ciò in conformità con quella parte dell’ordinamento che riconosce la necessaria operatività della business judgement rule, siccome mutuata dalla nostra dottrina e giurisprudenza.


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                  Note
                  • 1

                    Cass. pen. Sez. 5, Sentenza n. 7437 del 15/10/2020 – dep. 25/02/2021.

                  • 2

                    Si precise che sulla banca dati del C.E.D. della Suprema Corte di Cassazione, dalle ricerche effettuate da chi scrive, risulta quell’unico precedente.

                  • 3

                    Cass. pen. Sez. 5, Sentenza n. 34812 del 20/05/2019 – dep. 30/07/2019, Rv. 276775 - 0; Cass. pen. Sez. 5, Sentenza n. 44103 del 27/06/2016 – dep. 18/10/2016, Rv. 268206 - 0.

                  • 4

                    Per una più profonda analisi dei riflessi penalistici del novellato art. 2086 c.c., si rinvia a V. Rochira, La nuova gestione d’impresa, Milano, 2022, 143 s.

                  • 5

                    Tra i tanti: G.E. Colombo-G.B. Portale, Trattato delle società per azioni, vol. 4, Torino, 1991, 329.

                  • 6

                    Ex multis Cass. Civ. Sez. 1, Sentenza n. 5718 del 23/03/2004, Rv. 571391 - 01.

                  • 7

                    Cass. Civ., Sez. 1, Sentenza n. 18231 del 12/08/2009.

                  • 8

                    Cass. Civ. Sez. 1, Sentenza n. 3409 del 12/02/2013.

                  • 9

                    C. Angelici, La società per azioni. Principi e problemi, in Trattato di diritto civile e commerciale, Milano, 2012.

                  • 10

                    Tribunale Sez. spec. Impresa - Roma, 15/09/2020, testo completo del provvedimento disponibile sulla banca dati giurisprudenziale dejure.it.

                  • 11

                    Cfr. oltre alla pronuncia ut supra, Tribunale Roma Sez. spec. Impresa, 24/09/2020, testo integrale consultabile sempre sulla banca dati: dejure.it.

                  • 12

                    Cass. pen. Sez. 5, Sentenza n. 7437 del 15/10/2020 – dep. 25/02/2021.

                  • 13

                    Tra i tanti G.E. Colombo-G.B. Portale, op. cit.

                  • 14

                    Basti pensare che il legislatore concorsuale richiede per la bancarotta semplice operazioni “manifestamente imprudenti”, ovvero una “colpa grave”.

                  • 15

                    Segnatamente, l’art. 2392 comma 1 c.c. stabilisce che gli amministratori devono adempiere ai loro doveri «con la diligenza richiesta dalla natura dell’incarico e dalle loro specifiche competenze». Pertanto, non essendo richiesto all’amministratore di essere dotato a priori di requisiti tecnici, inerenti all’attività d’impresa, ma di agire diligentemente alla luce di quelli che già possiede, la diligenza non costituisce un mero criterio di valutazione dell’esatto adempimento (come potrebbe ragionarsi ex art. 1218 c.c.), piuttosto configura il contenuto della posizione di garanzia, ossia l’obbligo giuridico di buona gestione della società, cui l’amministratore è tenuto a conformarsi.

                  • 16

                    «Ne consegue che il giudizio sulla diligenza dell'amministratore nell'adempimento del proprio mandato non può mai investire le scelte di gestione (o le modalità e circostanze di tali scelte), ma solo l'omissione di quelle cautele, verifiche e informazioni preventive normalmente richieste per una scelta di quel tipo, operata in quelle circostanze e con quelle modalità» (Cass. civ., Sez. 1, Sentenza n. 3652 del 28/04/1997, Rv. 503948); successivamente poi in tema si è riconosciuta l’applicabilità della BJR in altre pronunce delle Sezioni civili: ex multis, Cass. civ. Sez. 1, Sentenza n. 3409 del 12/02/ 2013, Rv. 625022; Cass. civ. Sez. 1, Sentenza n.17441 del 31/08/ 2016, Rv. 641164; nonché Cass. civ., Sentenza n. 15470 del 22/06/2017, Rv. 644464

                  • 17

                    Cfr. sempre Cass. pen. Sez. 5, Sentenza n. 7437 del 15/10/2020 – dep. 25/02/2021 (v. parte motiva).

                  • 18

                    Ibidem.

                  • 19

                    Cass. pen. Sez. U, Sentenza n. 22474 del 31/03/2016 – dep. 27/05/2016, Rv. 266804 - 01.

                  • 20

                    Oggi l’art. 115bis c.p.p. parla addirittura di “presunzione di innocenza”.

                  • 21

                    Sulla stessa linea interpretativa cfr. R. Rordorf, Gli assetti organizzativi dell’impresa ed i doveri degli amministratori di società delineati dal novellato art. 2086, comma 2, c.c., in Diritto societario, 12/2021, 1328.

                  • 22

                    Vi è, inoltre, chi, seppur partendo dai medesimi presupposti di chi scrive (id est, l’eccessiva tutela della par condicio creditorum rischia di congestionare l’attività aziendale, proprio a discapito della prima), in senso contrario limitatamente alle vedute di opportunità ed efficacia della riforma di cui all’art. 2086 c.c., invece, ritiene che quest’ultima consista in un ulteriore eccesso di attenzione per il ceto creditorio, facendo «arretrare gli archetipi dei modelli. Primo tra tutti la “sovranità dei soci” che abdica a favore della “sovranità dei creditori” pervadendo l'intera struttura societaria, dalla fase genetica a quella crepuscolare». Cfr. C. Esposito, Lo statuto delle società in crisi e l'esilio della neutralità organizzativa, in Giust. Civ., 2021, 563.

                  • 23

                    La riscrittura della definizione di «crisi» di cui all’art. 2 d.lgs. 14/2019 è intervenuta – tra le altre modifiche – a seguito del d.lgs. n. 83 del 17 giugno 2022, che recepisce la c.d. direttiva “insolvency” ed entra in vigore il 15 luglio 2022.

                  Informazioni

                  Cita come: V. Rochira, La business judgement rule e il sindacato del giudice penale sull’adeguatezza degli assetti organizzativi, in Rivista di Diritto Penale di Impresa 1/2022, 55-71. DOI: 10.35948/RDPI/2022.5

                  Data propostaData validazioneData pubblicazione
                  04/04/202210/06/2022 25/07/2022

                  © Editore Progetto Diritto Penale di Impresa
                  Licenza: CC BY-NC-ND


                  In questo articolo:
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